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Liceo Classico Statale "Mario Cutelli" Catania |
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Laboratorio di Storia |
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prof.ssa Bonasera |
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La svolta postunitaria a Catania |
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L'Italia tra Risorgimento e rivoluzione industriale |
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Nella seconda metà del XIX secolo l’Italia si presentava, a confronto con altri paesi europei, un paese molto arretrato poiché solo in una parte del Settentrione (il Regno Sabaudo e la Lombardia), del Centro (Toscana) e del Meridione (Napoli) si era verificata una relativa accelerazione dello sviluppo (sarebbe errato in questo periodo parlare di industrializzazione). Tra i motivi di tale ritardo ricordiamo la dominazione di Napoleone Bonaparte (1796-1815), un ventennio, durante il quale pochi furono i miglioramenti compiuti dalle piccole imprese artigianali verso i grandi opifici ordinati intorno all’opificio di lavorazione. Inoltre la mancanza d'iniziativa e la frammentarietà del territorio influirono negativamente, in modo rilevante, sulla nascita dell’industria italiana. Infatti, la politica economica di Bonaparte mirava ad un'egemonia della Francia e ostacolava l’autonomia degli stati vassalli. Un ulteriore ostacolo al processo di innovazione economica dell’Italia fu rappresentato dall’eccessivo frazionamento doganale che rendeva difficili gli scambi in un’epoca in cui si faceva strada il liberoscambismo. In merito alla situazione economica un discorso a parte è necessario fare per il regno delle due Sicilie. Infatti, durante l’età napoleonica, mentre a Napoli s’insediavano i Francesi, in Sicilia giungevano gli Inglesi che diedero il loro appoggio a Ferdinando IV: si realizzò così l’incontro di interessi fra l’aristocrazia siciliana e i politici inglesi; tale incontro, catalizzato dalla figura di Lord Bentick, sarà alla base dello stato costituzionale siciliano e del suo sfaldamento. Infatti dopo la sconfitta di Napoleone le potenze vincitrici, mirando al controllo dei territori periferici, posero fine all’indipendenza siciliana. Peraltro, allontanato lord Bentick, mancava una classe che potesse dare un fondamento non solo teorico al costituzionalismo siciliano. Nella società isolana vi era un unico vertice: l’aristocrazia, mentre gli artigiani erano organizzati in corporazioni ed il popolo poteva far sentire la sua voce solo attraverso tumulti più o meno devastanti. Proprio perché fondato sull’egoismo di una classe il costituzionalismo siciliano (1812-14) fu un fallimento; infatti, in un clima europeo caratterizzato dall’affermazione del capitalismo e dall’unificazione dei mercati, i nobili siciliani auspicavano l’indipendenza della Sicilia come stato separato. La restaurazione borbonica, quindi, non solo non intaccherà minimamente il latifondo (che del resto aveva resistito ad ogni azione riformatrice), ma anche ostacolerà quella borghesia professionale, industriale e commerciale, che si era formata nella Sicilia orientale tramite l’elevazione delle tariffe doganali. Da questa realtà emerge la carboneria siciliana che guiderà i moti del 1821, caratterizzati da una grande incertezza, in cui la parte occidentale dell’isola si schiererà contro il governo rivoluzionario di Napoli in nome dello stato costituzionalista siciliano; riaffiorava così il vecchio separatismo. Tuttavia di fronte all’inattesa violenza della protesta popolare, i baroni preferirono accordarsi con il governo di Napoli perché "tutto tornasse come prima". Sotto il profilo economico dopo il crollo dell’impero napoleonico il Meridione si presentava fragile e impreparato in molti settori (nonostante le officine meccaniche nella zona di Napoli, i cantieri navali di Castellammare e i cotonifici di Salerno) ad eccezione di quello minerario specialmente per i giacimenti siciliani di zolfo, materia prima di crescente interesse destinata soprattutto alle fabbriche straniere produttrici d'acido solforico.Emblematica resta la costruzione della ferrovia Napoli - Portici del 1839, la prima in Italia, ma anche l’unica che il re avesse fatto costruire; perdurava, infatti, la mancanza di mobilità all’interno del territorio oltre alla specializzazione della manodopera ed alla carenza dei mezzi finanziari per paragonare lo sviluppo italiano a quello belga, inglese e francese. Il 1848 fu per l’Europa un anno cruciale perché le varie rivolte che scoppiarono a Parigi, a Vienna, a Budapest, a Berlino, a Milano e a Palermo furono tutte caratterizzate da una partecipazione popolare, che esprimeva diversamente dal passato, i bisogni degli strati più bassi della scala sociale in modo autonomo rispetto alla borghesia. In Italia, dove era già presente il dibattito politico (dal liberalismo moderato di illustri letterati e storici come Alessandro Manzoni, Cesare Balbo, Michele Amari e Carlo Troya, al liberalismo radicale di economisti quali Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo), esso divenne più ampio e vivace. Quando furono noti gli avvenimenti di Parigi, Milano insorse contro gli austriaci costringendoli, dopo 5 giorni di lotta, a rinchiudersi nel quadrilatero costituito dalle fortezze di Verona, Legnago, Peschiera e Mantova. Ovunque i presidi austriaci furono cacciati a furor di popolo, mentre i patrioti di Parma e Modena, dopo aver costretto Carlo Lodovico di Borbone e Francesco V a costituire dei Consigli di reggenza, estromisero le famiglie ducali e votarono l’annessione dei territori al Piemonte. In un clima di grandi entusiasmi Carlo Alberto, chiamato dai milanesi, dichiarò guerra all'Austria. Alla guerra concorsero forze regolari, inviate dai sovrani costituzionali italiani, cosicché si determinò uno schieramento militare "federalista" contro l'Austria; ma i timori di Carlo Alberto circa la possibilità di mantenere il trono in caso di sconfitta, le sue perplessità verso il movimento nazionale, che andava ben oltre gli obiettivi dinastici, minarono lo sforzo bellico. L'esercito piemontese, dopo aver vinto a Goito e costretto alla resa la fortezza di Peschiera, fu sconfitto a Custoza. Carlo Alberto si vide costretto all'armistizio di Salasco (9 agosto 1848). Nel ’49, quando Carlo Alberto, spinto da ragioni di politica interna, più che dalla ferma convinzione di una vittoria, passerà il Ticino rompendo l’armistizio, si troverà ancora solo di fronte all’Austria e ancora una volta dovrà subire la disfatta di Novara, per quanto gravi fossero le conseguenze in Piemonte, servì a legare indissolubilmente le sorti della dinastia sabauda a quelle dell’indipendenza e dell’unità d’Italia. La Repubblica Romana, diretta dal triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, trovatasi circondata dagli Austriaci, dagli Spagnoli, dai Borbonici napoletani e dai Francesi, cadde il 8 luglio 1849 dopo una resistenza di cui Garibaldi fu l’anima e il principale ispiratore. In Sicilia il moto rivoluzionario era esploso ancor prima che a Parigi e del tutto indipendentemente; infatti, i moti nell’isola acquisirono una chiara impronta separatista nei confronti di Napoli. Il problema dell'unificazione e della indipendenza nazionale sarà guidato nel decennio successivo dal Cavour, che lo inserirà nel contesto della politica europea e nel filone della ideologia liberale. Le riforme in Piemonte, gli accordi di Plombières, la seconda guerra di indipendenza e la proclamazione del regno d’Italia sono testimonianza esplicita della lucidità della politica del Cavour.Nel contesto della seconda guerra di indipendenza si colloca l’impresa di Garibaldi in Sicilia, un’impresa preparata da alcuni siciliani progressisti, come il giovane Crispi. Mentre Garibaldi marciava trionfalmente su Napoli, Cavour cercava di completare il suo disegno conservatore da un lato bloccando la spedizione garibaldina contro Roma e dall’altro il radicalismo dei mazziniani. In questo clima si configura l’incontro di Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Il Regno d’Italia era così sostanzialmente formato. Il primo Parlamento italiano conferiva a Vittorio Emanuele II il titolo di "Re d’Italia" (17 marzo 1861) e acclamava Roma capitale d’Italia (27 marzo) sottolineando così la volontà di congiungerla al Paese. Il nuovo Stato iniziò la sua storia con tre caratteristiche fondamentali: quella di essersi costituito come sviluppo e crescita dello Stato piemontese, che ebbe bisogno di distruggere i vecchi Stati non potendosi coordinare ad essi; quella di Stato liberale per il carattere delle sue istituzioni fondate sul voto popolare; e quello di essere stato costruito sul contenimento piuttosto che sullo sviluppo delle energie popolari. E’ anche vero che l’unificazione d’Italia comportò un aumento del commercio estero, parallelamente alla crescita dei nuovi ceti e della manodopera. Nel 1870 erano, infatti, sconosciute le industrie chimiche e quelle dell’acciaio a differenza dei classici settori, quali quello tessile, meccanico, siderurgico e manifatturiero. Le situazioni politiche influirono gravemente sia sul settore agricolo sia sul settore terziario; le difficoltà dei rapporti commerciali tra gli stati si verificò parallelamente alla nascita dei vari nazionalismi europei: a causa di ciò la politica economica subì una svolta adottando il protezionismo per favorire lo sviluppo del sistema industriale. Nel 1887 venne emanata in Italia una nuova tariffa doganale al fine di tutelare dalla concorrenza straniera, sul cui prodotto pesava un forte dazio d’entrata, il prodotto italiano. Conseguenza del protezionismo e della nuova tariffa del 1887 furono gli squilibri tra i diversi settori dell’economia, in quanto i comparti produttivi non erano tutti egualmente protetti dai dazi: così si verificò una rottura commerciale che comportò la guerra doganale con la Francia e gravò sulla economia italiana del periodo. La nuova politica ebbe anche effetti positivi quali il rafforzamento del processo capitalistico e l’introduzione di sovvenzioni statali: la fondazione della compagnia "Navigazione Generale Italiana" e l’installazione dell’impianto di produzione d’acciaio di Terni ci mostrano il maggiore intervento dello Stato nell’economia. Nonostante le carenze economiche, l’Italia si avviò all’espansione coloniale ed ebbe un importante sviluppo della tecnologie e della scienza, tanto che si parlò di una nuova rivoluzione industriale capace di abbracciare il settore chimico e metallurgico dedito alla produzione dell’acciaio. Nel 1891 l’industria subì un calo dopo aver raggiunto il massimo sviluppo nel 1889, e solo alle soglie del nuovo secolo ricominciò un’ascesa con pari bilanci rispetto a quelli raggiunti nel ventennio precedente: da ciò ebbe avvio il decollo industriale italiano. I governi che si susseguirono dal 1861 in poi ebbero tutti il demerito di acuire le disparità tra Nord e Sud. Il 3 Febbraio 1861 venne creata la prima legislatura del Parlamento italiano, il cui sistema elettorale si fondava sul censo (nel senso che il requisito minimo per votare consisteva nel pagamento di 40 lire l’anno d’imposte dirette); successivamente durante i governi della sinistra esso venne ampliato fino a comprendere il 7% della popolazione. L’organizzazione del nuovo Stato fu affidata agli esponenti politici della Destra storica, i cui membri facevano in gran numero parte di quella classe dirigente che aveva collaborato con Cavour nel processo di unificazione nazionale: essi si identificavano con i maggiori esponenti della grande borghesia e rappresentavano un ceto politico omogeneo e unitario, portatore di ideologie conservatrici, dal momento che era formato dalla élite di una società retta dalla proprietà privata e dalla banca. Tra i maggiori esponenti possono essere menzionati Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Giovanni Lanza, Alfonso La Marmora, Quintino Sella e Marco Minghetti, i quali si alternarono al governo fino al 1876. Una dei principali obiettivi della Destra storica fu la salvaguardia dell’unità nazionale attraverso uni rigido centralismo amministrativo, che trovò la sua piena manifestazione in ciascuna provincia nell’istituzione dei prefetti e nella creazione di un unico sistema finanziario. Il Mezzogiorno ancora una volta rispose nelle forme di un’endemica protesta sociale, il brigantaggio, che i governi della Destra affrontarono come una guerra a nemici dello stato disattendendo all’ansia di giustizia delle plebi meridionali. Nell’ottica della costruzione di una coesione delle varie parti d’Italia i governi della Destra vararono un intenso programma di costruzione di strade ferrate; tale programma, tuttavia, non aveva solo un significato risorgimentale, ma anche un contenuto sociale, la creazione di posti di lavoro: ancora una volta però questo riguardò poco i lavoratori del Sud, dal momento che gli operai specializzati erano reperibili in larga misura al Nord. Infine, per quello che riguarda il commercio con l’estero, i governi della Destra adottarono una politica fiscale fondata prevalentemente sul liberismo, che però determinò effetti opposti nelle regioni settentrionali e in quelle meridionali, acutizzando lo stato di degrado e l’arretratezza di queste ultime e favorendo un discreto sviluppo industriale nelle prime. Ne è esempio l’applicazione in tutto il territorio nazionale dell’imposta doganale del Piemonte, che indusse l’Italia ad inserirsi nel quadro europeo tra nuove aree di influenza commerciale, ma provocando una maggiore modernizzazione delle aree agricole più produttive e il danneggiamento di quelle più arretrate e meno fertili, con risultati a dir poco disastrosi. Non bisogna dimenticare che alla situazione finanziaria, gravata dalla pesante eredità degli stati pre-unitari, si cercò di rimediare con le promulgazioni di nuove leggi, come quella che entrò in vigore nel 1864 sul dazio di consumo, sull’imposta fondiaria e sui debiti di ricchezza mobile. Tuttavia, dopo il pareggio delle entrate e delle uscite, il precario equilibrio esistente nella distribuzione del carico fiscale rivelò ben presto i suoi difetti, in quanto si iniziò a tassare gravemente i consumi popolari: ne è un esempio l’introduzione della tassa sul macinato, che determinò una forte repressione dei contadini che tentavano di ribellarsi. Negli anni ‘70 si poté assistere in Italia ad un maggiore dinamismo economico e fiscale; l’aumento della circolazione della moneta determinò, infatti, un non esiguo incremento delle attività commerciali, così come lo sviluppo delle strade ferrate ebbe come conseguenza il consolidamento del mercato interno. Nel 1876 la camera venne sciolta e il governo di Destra fu rimpiazzato da quello della cosiddetta Sinistra storica. Il periodo che intercorre tra il 1876-1886, dominato da De Pretis, fu caratterizzato da un lato da forti spinte innovatrici e riformatrici, e dall’altro dal trasformismo (ossia quella pratica politica che si fondava su accordi stipulati al di fuori dell’aula parlamentare fra gruppi politici indipendentemente dalla connotazione ideologica), che garantiva la governabilità, ma tradiva la democrazia. Tra le riforme che vennero attuate non bisogna dimenticare l’istituzione di un criterio univoco per quanto concerneva la legge elettorale, basato sul grado d’istruzione degli elettori, l’aumento della tariffa doganale, la regressiva abolizione della tassa sul macinato e l’avvio delle inchieste agrarie per far luce sui problemi del Meridione. Ben presto, il cambiamento della congiuntura internazionale risultò alquanto sfavorevole all’economia italiana, come dimostra la crisi agraria degli anni Ottanta causata dall’introduzione del grano americano, prodotto a prezzi più bassi, nel mercato internazionale. Il problema economico non riguardava esclusivamente il settore agrario, ma anche quello industriale, che subì un notevole ritardo a causa della scarsa disponibilità di capitale da investire, dell‘arretratezza della rete ferroviaria e dell’insufficienza delle risorse energetiche. Espressione di tale difficoltà a conseguire lo sviluppo economico fu l’adozione del protezionismo doganale; in particolar modo, l’estensione della protezione a tutti i prodotti industriali e a quelli agrari di rilevante importanza, soprattutto al grano e al riso. Solo alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento, in relazione alla mutata congiuntura economica, l’industria italiana manifestò i segni di sviluppo, in cui giocavano un ruolo non marginale le banche, che facevano affluire un’ingente quantità di capitali, soprattutto stranieri. |
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